Intorno
agli anni '90 un certo Graham Phillips ipotizzò che il ciclo bretone si ispirasse a vicende e
personaggi realmente esistiti e promise che egli stesso si sarebbe premurato
di sviscerarli comunicandoci i risultati qualora avesse raggiunto un soddisfacente quantitativo di argomentazioni.
I primi risultati della sua indagine vennero
pubblicati nel 1992 nel saggio “King
Artur, the true story”, il quale, malgrado l'omonimia del
titolo italiano, non
è il
libro di cui parlerà questo articolo.
Sin dagli inizi optò per il metodo multidisciplinare, convinto che il limite maggiore dei suoi colleghi fosse sempre stato il non aver unito le forze. Decise quindi di incrociare le
prove storiche, letterarie, mitologiche e archeologiche e giunse alla scoperta di indizi che fino a quel momento erano stati
trascurati.
Ai precedenti ricercatori (e all'autore stesso) mancavano però tecnologie
e nozioni che son diventate
disponibili solo nel corso dell'ultimo ventennio.
Oggi la
geofisica si è evoluta e possiamo
contare su strumentazioni innovative,
nuovi metodi di datazione, nuovi manoscritti e nuovi siti
archeologici. Nel loro insieme questi sviluppi hanno permesso al
Phillips di approfondire,
sublimare e consolidare la propria tesi e pubblicarne la seconda parte,
possibilmente quella
definitiva:
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Re Artù. La vera storia |
Con questo saggio storico-letterario, pubblicato nei paesi anglofoni col titolo di The lost tomb of King Arthur, l'autore annuncia a
tutte le genti - specializzate e non - che avrebbe finalmente
identificato
i luoghi, i personaggi e le vicende che durante la loro
esistenza promossero
la nascita di un mito, quello
arturiano,
tanto duraturo quanto proficuo, tanto appassionante quanto
edificante. E
anche tanto abusato.
Fu
proprio a causa di questa fortuna che nel
corso del
Basso Medioevo il tema venne corrotto con interpolazioni dovute a volte all'ingenuità,
altre alla
malizia.
Quest'ultimo fu il caso di autori quali Robert de Boron, Goffredo di
Monmouth, i frati di Glastonbury (che manomisero i testi dello
scrupoloso Guglielmo di
Malmesbury)
e,
di conseguenza, Thomas Malory un paio di secoli più tardi.
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(Fig. 3)
Storia di Re Artù e dei suoi cavalieri,
(traduzione italiana de Le Mort d'Arthur) |
Vivendo
nel XV secolo e scrivendo perlopiù da una prigione, Malory non aveva
gli strumenti per distinguere i capitoli originali da quelli interpolati. Si ritrovò pertanto a consolidare la versione sbagliata della
leggenda.
Il motivo per il quale lo consideriamo il maggior
esponente del ciclo arturiano è essenzialmente uno: la coincidenza.
Nel 1485, infatti, la pubblicazione di Le
Mort d'Arthur (Fig. 3) coincise
con la
recente installazione
a Londra
della prima stampa a caratteri mobili. Ciò
permise all'opera di diventare
il primo best-seller arturiano
della storia nonché il secondo libro più stampato dopo la Bibbia: in
Inghilterra la superò, addirittura.
Ma
se da una parte gli autori citati poc'anzi corruppero
il
mito per doppi fini, dall'altra abbiamo
anche frati
che risposero alle razzie vichinghe dei secoli immediatamente
successivi alla caduta dell'Impero Romano salvando tutto
ciò che potevano del patrimonio letterario locale - l'ex
Britannia romana -,
tra
cui anche i poemi gallesi su Artù. Raggrupparono i testi, li
copiarono
e li suddivisero
per temi e volumi, favorendone
la conservazione fino ai giorni nostri.
Secondo il Phillips, la
chiave
di volta starebbe
proprio
in
questi
nuovi manoscritti. Dico
“nuovi”
perché, pur
risalendo
all'Alto Medioevo,
mai nessuno era andato a consultarli: vuoi
perché
non
erano in molti ad aver anche solo pensato
che Artù
potesse ispirarsi
ad una persona reale, magari conosciuta
con un altro nome, vuoi
perché l'opinione pubblica collocava Artù nell'Inghilterra
orientale, non nel Galles.
Come dicevo, grazie
al
lavoro certosino di questi uomini di
Dio, Phillips poté
consultare dei testi medievali
nel XXI secolo, ritornare
al nocciolo della storia e constatare che,
come nelle versioni originali Morgana non era sua sorella e non era
un'antagonista, allo stesso modo Uther, Artù e Ginevra erano
soprannomi anziché nomi; Camelot non era mai stata chiamata così prima del XII secolo; Avalon era solo una delle tante isole-santuario sede di comunità femminili votate alla guarigione; Merlino non era un vero mago (ma va?) ed Excalibur
non era la spada nella roccia.
“Re
Artù, la vera storia”
è la cronaca di una minuziosa ricostruzione
storica senza precedenti e senza pregiudizi in cui l'esposizione
semplice non corrisponde necessariamente
a contenuti semplicistici e
in cui i vari
temi sono affrontati col consueto metodo scientifico strutturato
in tesi,
antitesi e sintesi – una
formula che
lascia
poco spazio
ai dubbi.
Tuttavia,
alla fine della lettura un dubbio rimane irrisolto: quella
indicata dal Phillips sarà
davvero la tomba di re Artù?
Sebbene
tutti
gli indizi portino ad un preciso luogo e sebbene la sonda abbia
riportato che effettivamente sottoterra c'è
qualcosa,
non è stato possibile scavare ed
ottenere
una risposta. Il punto incriminato sorge infatti su
una proprietà privata che a sua volta
sorge in un'area
di monumentale interesse archeologico. Il mancato possesso delle
autorizzazioni per
gli scavi, in questo caso, comporterebbe
non solo una multa, ma anche un paio d'anni di prigione.
Tra
i vari scopi di questo saggio, dunque, c'è anche quello di
presentare
una documentazione abbastanza valida da mettere
in moto la burocrazia inglese e
ottenere
questa famosa autorizzazione.
Per
noi, gente comune, invece lo scopo è continuare a farci sognar...
ehm... guardare al
patrimonio culturale europeo da
una nuova prospettiva.
Inutile specificare che l'acquisto
è d'obbligo per ogni appassionato della
materia di Britannia.
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Voto: 4/5 |
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